Libertà di stampa: davvero tutto è permesso?

“Questo sarebbe meglio non scriverlo…”.
“Questo potevate proprio evitarlo…”

Quando frasi di questo tenore vengono pronunciate al di fuori di una redazione (all’interno è normale e del tutto lecito, al contrario, fare ragionamenti di questo genere) si configurano possibili limitazioni alla libertà di stampa.

Davvero, per così poco? Già, e provo a spiegare brevemente il perché.

Come ho già scritto (e mi perdoneranno i colleghi se ribadisco l’ovvio) la notizia è tale solo se il giornalista decide che sia tale. Non tutti i fatti, non tutti gli eventi, diventano notizie. Il cuore della professione, la “mediazione giornalistica” sta in questa continua scelta di cosa riportare e cosa no, a cosa dare risalto e cosa ignorare, cosa commentare e cosa lasciare all’oblio, nel rispetto della linea editoriale della testata e della nostra deontologia professionale.

Che si parli di articoli, inchieste, interviste o approfondimenti, tutto rientra nel diritto di cronaca e può essere sottoposto ai lettori se il giornalista lo ritiene. Basta solo farsi prima un semplice esame di coscienza chiedendosi: “È vero?” e subito dopo “Può essere di interesse pubblico?”.

Ai giornalisti la legge, riconoscendo il loro prezioso ruolo nella formazione dell’opinione pubblica, concede persino la possibilità di diffamare, ossia di ledere la reputazione, l’onore e la riservatezza di una persona, A PATTO che le notizie riportate siano vere (principio di verità), di interesse pubblico (principio di pertinenza), scritte in modo civile (principio di continenza). A ribadirlo è stata la Corte di Cassazione nella celebre “sentenza decalogo” (1984).

La stampa, nella nostra Italia repubblicana, “non è soggetta ad autorizzazioni o censure” dal 1948. Eppure in molti, politici e militanti di tutti gli schieramenti, continuano a sognare bavagli. La cosa non mi stupisce, se si pensa che in questo Paese la censura preventiva è stata abolita poco più di un secolo fa (1904) a differenza di molte altre nazioni civili.

Cosa dovrebbero fare dunque i lettori che non condividono lo scritto di un giornalista o addirittura si indignano per esso, stracciandosi le vesti?

Se l’articolo contiene delle falsità evidenti, o delle violazioni delle carte deontologiche, si dovrebbe presentare un esposto all’Ordine regionale di competenza, il quale (accertata la sua fondatezza) lo inoltrerà al Consiglio territoriale di disciplina.

Mentre se l’articolo contiene dei fatti veri, di rilevanza pubblica ed esposti in modo civile, il lettore che non lo condivide ha nelle sue mani la più potente delle armi: smettere di leggere quel giornale o cambiare canale.

Invocare bavagli e censure, al contrario, o anche solo invitare i giornalisti “a fare altro” sono invece delle limitazioni alla libertà di stampa. Tutto qui.

“Sono ancora convinto che in questa nostra Repubblica ci sia spazio per la libertà di stampa. E ci sia perfino in questa Azienda […] chi vorrà far sentire tutte le opinioni. Perché questo, signor Presidente, è il principio della democrazia. Sta scritto, dia un’occhiata, nella Costituzione”.

Lettera di Enzo Biagi a Silvio Berlusconi, ultima puntata del Fatto, 18 aprile 2002